Home Page
La missione genovese a Santo Domingo
cartina Genova --> Santo Domingo

La missione genovese a Santo Domingo
(Repubblica Dominicana)

Le testimonianze di chi ha vissuto o visitato la missione

1. Luca e Caterina Spingardi

2. Francesco Benvenuto

3. Francesco Zannini


1. Luca e Caterina Spingardi, Genova

Un ricordo della Missione di Santo Domingo (aprile 1999)

Siamo sull’isola di Hispaniola, dove scoprì il nuovo mondo e più tardi morì Cristoforo Colombo. Divisa tra gli stati della Repubblica Dominicana e Haiti, l’isola è una grande distesa di canna da zucchero. Arrivando in aereo non vedi molti abitati e non capisci come facciano a coltivare la terra. Ci diranno poi i dominicani che in gran parte il taglio della canna è fatto, col machete, da un milione di haitiani di cui loro hanno bassissima considerazione. Siamo lì per una vacanza di lavoro in una bella "resort" molto americana e… naturalmente avulsa dal contesto isolano.

Don Francesco, il nostro vice parroco, ci ha parlato della missione della diocesi di Genova a Santo Domingo, la capitale della repubblica, e quindi organizziamo una visita.

Il quartiere del Guaricano è alla periferia nord della città e costituisce in sostanza una recente inurbazione di tanti ex contadini che affluiscono da dieci anni. Città di 2,5/3 milioni di abitanti ormai, su 8 della repubblica. Per arrivare alla missione si passa nel traffico disordinato di Santo Domingo, dove la mancanza dei nomi delle vie o i sensi unici non indicati ("devi cogliere tu il senso di marcia" ci avverte don Lorenzo) ti dice quanta strada debba ancora percorrere il paese. Le macchine che circolano non hanno perlopiù traccia di fari o frecce e francamente non capisci come facciano a muoversi. Le strade hanno una quantità inverosimile di buche che costringono ad una guida attentissima.

Mi fermo a fotografare una persona che si lava nello scarico di un rigagnolo sotto un ponte, con un po’ di vergogna per la mia faccia da turista con aria da reportage. Scoprirò che i dominicani sono gente molto pulita, che si lava tre o quattro volte al giorno. Gente disponibile, dall’aria dolce, forse perché abituata alla sottomissione nel ricordo della schiavitù, dice don Lorenzo.

Le casette precariamente ammassate sui bordi delle colline e nelle strade, la confusione e l’impressione di povertà generalizzata, il grande mercato polveroso e maleodorante, ma anche i bambini che vanno a scuola tutti rigorosamente in divisa, secondo la tradizione spagnola.

Noi pensavamo di disturbare ed invece l’accoglienza alla missione è generosa da parte di don Paolo Benvenuto e don Lorenzo Lombardo. Siamo invitati a colazione e poi don Paolo ci porterà a visitare la missione.

Seguono 60.000 persone divise in tre parrocchie ed organizzate con l’aiuto di diversi laici che gestiscono centri locali, dove animano momenti di comunità. Questo è il risultato del paziente lavoro di don Lino Terrile e don Giulio Boggi che hanno avviato e curato la missione per sette anni. Abitavano in case molto essenziali ("è duro svegliarsi tra gli scarafaggi" ci dirà poi don Marino che ha passato due mesi con loro), prima che l’anno scorso fosse ultimata la nuova missione. La casa della missione è un edificio rosa su due piani con chiostri e molto spazio. Un muro di cinta con pesante cancello chiuso e guardia (mandata dalla pubblica amministrazione) ci ricorda che la situazione non è idilliaca.

Lì vivono pure tre suore brignoline (lo stesso ordine che segue la Scuola Materna di Salita S. Gerolamo in Castelletto); curano il centro medico nutrizionale organizzato in esterno dalla missione, dove tra gli altri arrivano e sostano in rotazione una dozzina di bimbi che necessitano una vigorosa azione di recupero. La nuova missione ha un grande potenziale anche se le vecchie case in qualche modo davano più immediatezza nel contatto con la gente. La struttura è nuova ed il suo utilizzo è in via di definizione.

Don Paolo ci dà la gioia di poter partecipare alla sua visita giornaliera e partiamo con lui su un camioncino fuoristrada. Passiamo davanti ai "multis nuovi", colorati palazzi costruiti dallo stato ed abitati da "benestanti" che si possono permettere un affitto di 50.000 lire mensili. Un gruppo di bambine carinissime giocano divertite con un camion della spazzatura. C’è un grande via vai di questi camion che raggiungono la grande discarica di Duquesa, poco distante e fonte di lavoro per molti che cercano di recuperare qualcosa di rivendibile.

Raggiungiamo Mariano, un collaboratore nell’opera della parrocchia. Mariano vive in una precaria casa che ha costruito dieci anni fa in legno con un tetto in lamiera (bucata in molti punti, quando piove è un colabrodo – ma perché non li tappa, mi chiedo). La tipica casetta/baracca che poi scoprirò essere molto bella in rapporto alle baracche della "cañada" dove vivono i più sfortunati. L’attività principale della missione è ora proprio quella di ricostruire le baracche per la maggior parte dei diseredati a cui George, il terribile uragano dello scorso autunno che ha spazzato una striscia di 120 km sull’isola seminando morte e distruzione, ha tolto ogni cosa. I nostri missionari devono decidere la priorità con cui destinare i carichi di legname e l’aiuto dei locali è fondamentale per discriminare i falsi pretendenti. Mariano ci invita nella sua casa, dove tiene anche un piccolissimo spaccio di generi vari. Ha pure un contributo dalla missione per l’azione che presta. Ha imparato a leggere con don Lino e ora anima un gruppo. Ha 5 figli e mi spiega che la generazione precedente ne aveva facilmente una quindicina.

Visitiamo quindi la scuola ed il centro nutrizionale. Le suore ci mostrano i medicinali spesso scaduti che ricevono dal mondo progredito. Dicono che sono loro a dover indicare le necessità sanitarie perché altrimenti arrivano cose inutili o inutilizzabili.

Ma sono gli occhi imploranti di due bimbi molto piccoli che giacciono in terra sporchi in un pianto dirotto, in attesa di una madre troppo distratta e forse malata di mente, che rimangono l’immagine più toccante che ho portato con me, rappresentativa della spaventosa distanza tra noi e quel mondo. Una baracca senza porte nella "cañada", un lungo tratto infossato dove vive ammucchiata un sacco di gente in baracche veramente miserrime. Quando piove tutto si trasforma in fango e prosperano le zanzare. Leggevo che ancora oggi la malaria (che peraltro non credo alberghi nell’isola) è una delle quattro cause principali di morte nel mondo. La gente, che a me pare dimostri dignità e perfino allegria, si lamenta animatamente con don Paolo per questo fatto chiedendo un suo intervento. Un gran frastuono di radio – rigorosamente a tutto volume, quasi a volersi stordire – e alcune televisioni (e telenovele) seguite in gruppo, sono la distrazione comune per questa gente che vive di lavoro occasionale nella città vicina-lontana. La raggiungono in sella a moto-taxi, necessari per muoversi in fretta prima che repentini acquazzoni colgano di sorpresa negli spostamenti. La situazione sociale non è facile, le coppie sono disordinate e i bambini spesso non dichiarati, inesistenti.

Don Paolo e don Lorenzo non hanno un compito facile. Ci invitano a parlare della loro esperienza (che non possiamo naturalmente cogliere nello spazio di una visita lampo) per ricordare questa missione. Ci ricordano che gradiscono visite ma devono programmare eventuali permanenze perché siano coordinate ed efficaci. La conoscenza dello spagnolo è importante per chi volesse portare un contributo operativo sul campo.

Luca e Caterina Spingardi
Genova


2. Francesco Benvenuto, Genova

Ricordi di un'esperienza nella missione genovese di S. Domingo (aprile/maggio 2000)

In aprile 2000 sono ritornato a fare visita alla missione genovese di S. Domingo, a distanza di otto anni dalla prima visita, fatta assieme ad altri laici delle aggregazioni di Genova. Questa volta sono partito invece con i miei genitori, per andare a trovare i due preti che ormai quasi due anni fa hanno iniziato l'esperienza di missionari.

L'emozione, però, era quella della prima volta; quasi come un bimbo alla scoperta di cose nuove e ricche di significato. I ricordi di otto anni prima, mescolati all'attesa di qualcosa di nuovo e di cambiato. Otto anni: un'eternità, ma appena arrivato giù mi sembrava un po' di ritornare a casa. Certo, cambiamenti ce ne sono stati tanti. L'atmosfera, l'accoglienza, la fraternità, però, erano quelle di sempre; come se non fosse passato nemmeno un istante.

La missione è cresciuta; una nuova parrocchia si è aggiunta, una scuola è sorta, l'ambulatorio è divenuto un servizio riconosciuto nel quartiere; i missionari sono diventati sei (due preti, un laico, tre suore); gente nuova si è aggregata; qualcuno ha lasciato.

Ho visto una comunità più matura, che, fondata su Gesù Cristo, cerca di costruire un'esperienza di chiesa. Ma qui sta proprio tutta la fatica di quest'esperienza dominicana. Una chiesa giovane, calorosa, accogliente, desiderosa di conoscere sempre di più il Signore, ma che fatica a far diventare scelta etica la parola che ascolta. La cultura dominicana non aiuta, con una promiscuità della famiglia, figli non riconosciuti, maschi padroni e donne succubi; una corruzione piuttosto generalizzata; un americanismo esasperato; un consumismo galoppante. Colpisce, tuttavia, la freschezza di quest'esperienza ecclesiale, che ti prende nelle celebrazioni, nello stare insieme, nei canti, nella spontaneità delle espressioni.

I quindici giorni a disposizione, purtroppo, sono passati in fretta ed è arrivato il tempo di partire. Stanchi e contenti. Con una promessa nel cuore: quella di ritornare presto, magari per un tempo più lungo; forse come missionari. Lasciamo fare al Signore.

Francesco Benvenuto
Genova

3. Francesco Zannini, Genova

Lettera/testimonianza sulla esperienza che sta svolgendo nella missione (scritta ottobre 2000)

Cara Fran cesca,

ti rispondo solo ora perché, forse, ti è sembrato di chiedermi una cosa facile; ma, per me, raccontare cosa faccio nella Missione, implica una riflessione sul significato profondo di quello che sto vivendo e del come lo vivo.

Per questo mi sono preso del tempo, approfittando del clima piovoso di questi giorni che ha, in qualche modo rallentato le attività, per pensare e cercare di chiarirmi le idee. Tu hai visto Guaricano, hai conosciuto alcuni degli abitanti che vivono in questo barrio, e ti sarai fatta la tua idea, avrai pensato alle soluzioni che sarebbero necessarie per migliorare la situazione e, avendone la possibilità, avrai desiderato di tornare per cercare di realizzarle, di porle in pratica.

Tutto questo è esattamente quello che ho vissito io, fin dalla prima breve visita, fatta nell'ottobre del 1992, con un gruppo di laici e preti che accompagnavano il Cardinale Canestri.

La decisione di andare in pensione anticipatamente l'ho presa proprio per questo motivo: tornare in Guaricano, collaborare con la Missione, posizionare il mio bloc per la nuova casa più solida, in cui sarebbero andati a vivere i poveri delle precarie capanne costruite sulle cañadas. Mi sono accorto, a poco a poco, durante un anno e mezzo di permanenza che questo progetto così chiaro, così semplice nella sua laicità è più complicato di quello che potessi pensare.

Si è inserito un elemento non previsto, ma importante, direi risolutivo. Non sarebbe giusto affermare che non lo conoscevo, ma certamente l'avevo sottovalutato. La mia lunga esperienza di scautismo, forse, mi faceva ritenere di averlo acquisito per sempre. Parlo dello spirito di servizio. Per poter servire gli altri che sono costretti a vivere in un mbiente povero, degradato sotto tutti i punti di vista (la violenza aumenta di giorno in giorno, in santo Domingo e qui in Guaricano. La vita non è considerata un valore: l'altro giorno, vicino alla Posta, nella parrocchia di Nostra Signora dell'Amparo, alle otto di sera è stato sgozzato un motoconchista da un cliente che si è appropriato della moto). Ci si debe liberare da qualsiasi, pur inconsapevole, senso di superiorità. È giusto guardare criticamente questa realtà, ma non è giusto giudicarla. Come si può fare allora? La mia conclusione, a questo proposito, coincide con quanto scriveva nell'ultimo bollettino de "I Piccoli Fratelli di Gesù" un fratello del Medio Oriente. È l'unico metodo che mi sembra applicabile ma è anche il più doloroso. Riporto testualmente: "...una presa di coscienza più profonda dei miei limiti e della mia povertà spirituale mi aiuta a comprendere e ad accettare meglio i limiti e la povertà degli altri. Può essere anche che a poco a poco il Signore cambi la mia maniera di vedere le cose, Lui che 'quando vede il male è come se non lo vedesse, quando sente il male è come se non lo sentisse', come ci dice un detto dei Padri del deserto".

Questa nuova ottica non si può improvvisare, richiede un cammino di fede, di conversione. Ogni giorno che vivo qui, in missione, è un piccolo e incerto passo verso questa direzione. È un continuo avanzare e retrocedere. Davanti ad episodi tragici o violenti riaffiora la voglia di giudizio, l'incomprensione, l'etichetta (barbari!) che ti scarica da ogni responsabilità, anche da quella affidataci da Gesù: amare. Tenendo presenti queste premesse che per me sono la parte più importante del mio impegno missionario, ora posso descriverti la mia giornata dominicana.

La sveglia squilla alle cinque e mezza, mi alzo, quasi sempre, pieno di sonno, ma con una doccia e un buon caffé in qualche modo sono in piedi, pronto per andare alla santa Messa. Dopo, inizia la mia mattinata nella farmacia dell'ambulatorio, lì mi occupo della cassa. Non è, come si potrebbe pensare, un lavoro di poca soddisfazione. A me piace perché mi fornisce molte indicazioni sulla situazione sanitaria del barrio. Le rischieste di analisi, ad esempio, mi danno una idea di quali sono le infezioni più diffuse (l'AIDS è in continuo aumento e praticamente non la si cura); le medicine rivelano le patologie più comuni, le iniezioni combattono le malattie più resistenti, e così via. Le parole, poi, che le suore e l'infermiera scambiano con i pazienti, aprono squarci inediti sulla realtà di Guaricano e dei campos vicini. Non mi fa molto piacere quando Paolo mi affida altri incarichi da svolgere nella mattinata, perché mi toglie da questa finestra aperta sulla vita quotidiana.

A mezzogiorno e un quarto si rientra per il pranzo comunitario che, oltre a rifocillarci, ci serve per scambiare le informazioni sugli impegni che ci aspettano e a commentare gli avvenimenti più importanti. Dopo pranzo, mi riposo leggendo il giornale, ricevo le telefonate dei mie familiari o amici (la differenza di orario impone appuntamenti concordati), faccio un sonnellino e verso le tre e mezza rientro in parrocchia. Il pomeriggio, solitamente, è dedicato alle molteplici riunioni che, quasi sempre, necessitano di adeguato supporto cartaceo, che preparo con la fotocopiatrice.

Nei momenti liberi, conversando con le presone che attendono di parlare con il parroco, cerco di filtrare le richieste, di valutarne le urgenze. Se posso soddisfarle personalmente, un lavoro in meno per Paolo che ne ha già tanto. Anche se la riunione con i giovani è fissata al martedì alle sei, quasi tutti i giorni, verso quell'ora, passano dalla parrocchia e mi fa piacere chiacchierare con loro, scoprire lati sconosciuti del loro carattere o della loro storia. Li sento più vicino e molte volte mi stupisco della loro bontà (in simili situazioni familiari o sociali so fin troppo bene quanto rabbiosa sarebbe la mia reazione).

Alcune volte, specialmente al sabato e alla domenica, terminata la Messa, vado accompagnato dagli animatori di comunità a portare la comunione agli infermi. Settimanalmente visito una decina di famiglie. A questo compito tengo in modo particolare, svolgendolo tocco con mano tutto quello che uno può supporre sulla vita degli emarginati: la capanne, las cañadas, il numero spropositato di persone ammassate in pochi metri quadrati, le pessime condizioni igieniche in cui vivono gli adulti e infiniti bambini. Quando mi capita di visitare un nuovo malato, in una zona dove non sono mai stato, mi coglie una dolorosa sensazione di sgomento. "Mio Dio, come è grande Guaricano!", ma quanti sono i poveri che ci vivono? Cosa si deve fare per loro? Mi accorgo che sono tornato alle domande iniziali... e se una speranza esiste è tutta racchiusa nel sorriso di chi riceve l'Eucaristia e mi dice, salutandomi: "Grazie di essere venuto a visitarmi, hermano".

Un abbraccio. Francesco

_______________
Glossario:

barrio quartiere povero di periferia
bloc blocchetto di cemento per costruzione
cañada fossato che scorre in mezzo al barrio raccogliendo acque piovane e nere
motoconchista mototaxista
campos paesini situati nei dintorni del barrio, una volta erano in aperta campagna, ormai vengono assorbiti nella città
hermano fratello


Pagine a cura di don Paolo Benvenuto - Segnalami eventale materiale che possa essere aggiunto!


Questa pagina è sul Web da

Dicembre 1998